All'incirca duecento le scuole di formazione politica, da diecimila a ventimila i frequentanti: scuole che muoiono e nascono, un fenomeno senza paragoni nelle democrazie industriali e assolutamente sorprendente in Italia, dove la presa soffocante della politica sulla società ha provocato una reazione di rigetto verso quella forma-partito che, nel bene e nel male, è considerata come la forma della politica nella modernità. Un fenomeno in gran parte interno al mondo cattolico, ma capace di attirare l'attenzione di tutte le culture politiche, un processo che ha fertilizzato terreni abbandonati al disincanto e all'indifferenza e ha creato, almeno, nuovi atteggiamenti verso la politica. Una risposta, forse, alla domanda di nuove solidarietà, al bisogno di stipulare nuovi patti civili, a un sentire diffuso: che la politica avesse smesso di parlare i linguaggi dell'etica e del diritto.
Quella delle scuole di formazione politica è una realtà complessa, forse anche non priva di ambiguità, sicuramente ambivalente. Una sua lettura non può essere separata, pertanto, dalle pratiche di azione collettiva, di impegno solidaristico o di autotutela civile. Tra i due ordini non c'è soltanto osmosi e sostanziale convergenza nel rompere il vecchio regime della politica; essi delineano insieme una nuova concezione di cittadinanza in cui si fanno più forti le componenti soggettive e societarie.
Le analisi qui raccolte, condotte con strumenti disciplinari diversi, possono aiutare a rispondere al quesito sul ruolo delle scuole di formazione: utopia, supplenza o riforma della politica?