

Il compito che attende il romanziere nella Spagna della Restaurazione è per molti aspetti simile a quello che nel Chisciotte si è assunto il baccelliere Sansón Carrasco: riportare a casa l'hidalgo sfidandolo sul suo stesso terreno, quello dell'illusione. Nella lucida diagnosi che della decadenza nazionale elaborano sia Clarín che Galdós un'unica condanna accomuna la prosaica nazione canovista e il suo antagonista: il soggetto romantico, irrimediabilmente ammalato di lealismo. Riportare a casa don Chisciotte è innanzitutto un progetto di modernizzazione culturale: si tratta in primo luogo di riambientare in Spagna quella forma romanzesca che proprio dalla Spagna secentesca aveva preso le mosse. Riappropriarsi del romanzo negli anni ottanta dell'Ottocento significa concretamente ispanizzare l'esperienza realista-naturalista europea, cosa che avviene attraverso la lezione viva di Cervantes. Il romanzo è lo strumento terapeutico della sindrome nazionale che vede l'idealismo sconfitto dall'arretratezza, dal fanatismo, dall'intolleranza, e il romanziere come terapeuta che cura il chisciottismo del personaggio con l'ironia cervantina. In un primo momento si tratta per Clarín di battere la cecità romantica attraverso la lucida visione del romanzo come «maison de verre», strumento ottico capace di mettere a nudo, di offrire alla visione del lettore il male nazionale e insieme la cura per lui approntata: il romanzo. Ma Clarín (come del resto Galdós) viene giocato da Carrasco. Proprio dall'impietosa disamina del reale emerge un altro territorio, che si sottrae alla visione e si offre invece all'ascolto, la sorgente singolare dell'etica come immaginazione: l'anima. Dando forma al suo personaggio nel crogiolo etico-estetico della decadence, Clarín redime l'orfano romantico, lo rende padre e finalmente generatore della sua esperienza.

Carlo Michelstaedter
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