Capitan Cook, per esempio
Le Hawaii, gli antropologi, i «nativi»
A cura di Francesca Giusti
Davvero gli hawaiani credettero che capitan Cook, giunto nella loro isola nel 1779 con due grandi navi, fosse l'incarnazione di un loro dio, venuto dal mare per celebrare insieme a loro l'Anno nuovo? O piuttosto gli abitanti di quel lontano arcipelago erano troppo pratici, razionali e realistici per poter scambiare un capitano britannico per una divinità locale? È quest'ultima la tesi avanzata da Obeyesekere, un antropologo anch'egli nato in un contesto non occidentale, che ha di recente - e con forte carica polemica - messo in radicale discussione le tesi fin qui avanzate da Marshall Sahlins. In questo libro il grande antropologo risponde alle accuse con un piglio polemico appassionato e vibrante, che non cerca riparo dietro la sua pur indiscussa autorevolezza. La posta in gioco è infatti assai più alta di quanto non sia la rilettura dello specifico episodio della morte di Cook, e comprende interrogativi cruciali per l'intera disciplina: è possibile per degli antropologi occidentali descrivere adeguatamente la cultura di popolazioni non occidentali? È possibile davvero capire, da parte di persone esterne, «come pensano i nativi?». L'autodifesa di Sahlins si trasforma in un vero e proprio contrattacco: attraverso la riaffermazione del valore della storia e la sottolineatura del peso delle differenze culturali, Sahlins rivendica insieme la legittimità di un punto di vista «non realistico» da parte delle popolazioni hawaiane e la possibilità per l'antropologo occidentale di comprendere culture anche molto diverse dalla sua. Di là da ogni presunta omologazione, o al contrario da ogni pretesa impossibilità di dialogo, Sahlins difende dunque la legittimità stessa del punto di vista antropologico, l'aspirazione a capire «l'altro», senza annullarne o disconoscerne le differenze.