«Pur essendo profondamente oltraggiati dagli atti terroristici, dobbiamo cercare di collocarli nei contesti politici, culturali e morali che danno loro significato. La condanna e la comprensione non sono incompatibili».
Il «terrorista suicida» è una figura che sembra sfuggire a ogni possibile comprensione. L’inquietudine che suscita dipende anche dal fatto che alcune caratteristiche del suo comportamento non ci sono così estranee, ma fanno parte di una nostra storia: il martirio volto alla diffusione di ideali religiosi e politici è centrale nelle grandi tradizioni religiose, così come in tutti i movimenti nazionalisti che hanno plasmato l’Occidente moderno. Nelle forme di terrorismo suicida contemporaneo questi tratti si manifestano però in modalità che ci appaiono diverse e «distorte» – tanto più perturbanti, dunque, in quanto fondono il familiare e il mostruoso. L’opinione pubblica rappresenta il terrorista suicida per lo più in termini di devianza, follia, fanatismo; un soggetto irrazionale, che è stato plagiato o agisce sulla base di credenze religiose «primitive», quali l’attesa di un premio in paradiso. Per quanto riguarda gli studiosi, alcuni tentano di ricondurre queste scelte estreme a gravi disagi psicologici acuiti da condizioni di vita particolarmente critiche; altri le collegano a motivazioni esclusivamente razionali e tattiche. Si tratta però di approcci del tutto insufficienti: il terrorismo suicida non può essere compreso solo in riferimento a scelte strategiche politiche e militari, o a disposizioni psicologiche individuali, o a situazioni di vita drammatiche. Questi fattori hanno di certo un ruolo determinante, ma perché un individuo decida di aderire a un’organizzazione terroristica e di votarsi al martirio è necessaria una cornice culturale socialmente condivisa e radicata, un contesto profondamente morale, con una concezione socialmente plasmata del bene e del male, che attribuisca a quel gesto un valore alto e condiviso. E un ruolo cruciale in questo senso è giocato dalla religione: troppo spesso intesa in modo caricaturale e «primordialista», agisce in realtà come un lessico morale, nel quale si esprimono valori come la sacralità dei rapporti familiari, la solidarietà comunitaria, la morale pubblica – il senso dell’essere umani, in definitiva. Non si può dunque pretendere che le violenze islamiche – e le pratiche di martirio in particolare – divengano comprensibili solo se depurate da una «superficie» religiosa: quest’ultima è una componente costitutiva del loro significato. Il che non vuol dire che le religioni, e in specie l’Islam, siano in sé violente o portino alla violenza. Vuol dire però che i protagonisti del terrorismo suicida jihadista plasmano con forza la propria soggettività nel linguaggio e nella pratica islamica: dobbiamo tenerne conto se vogliamo comprendere, oltre che condannare.
Nino Dolfo, Il Corriere della Sera, 30/03/2017
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