

«È un fatto che non esiste nel mondo occidentale un ceto politico più duraturo di quello che da vent’anni guida il più importante partito del centrosinistra. È un fatto che questo ceto politico è generazionalmente insediato nel partito da più di trent’anni. È un fatto che questo stesso partito invece di rinnovarsi si limita a cambiare di nome, laddove i nomi dei suoi dirigenti restano invariabilmente gli stessi…».
Si può essere, in un regime democratico, leader a vita? Nell’Italia contemporanea, specie a sinistra, sembrerebbe di sì. Non c’è difatti democrazia occidentale che conosca una classe politica più duratura di quella che, da vent’anni, guida il più importante partito italiano del centrosinistra. Un partito che è stato continuamente ribattezzato, pur di non cambiare mai i nomi dei suoi leader, mentre i laburisti inglesi, i socialdemocratici tedeschi, i socialisti francesi hanno oggi dirigenti diversi da quelli che avevano alla fine del secolo scorso. La crisi di rappresentanza dei partiti italiani coincide con la crisi di credibilità delle loro leadership. Un problema evidente a tutti, ma che all’interno del Partito democratico è diversamente valutato: i più, semplicemente, non lo considerano un problema; altri lo cavalcano coi modi dell’antipolitica; altri ancora riconoscono la fondatezza della questione, ma la reputano secondaria rispetto ad altre. E chi la tiene nel giusto conto non è ancora riuscito a porla davvero al centro della propria iniziativa politica. Le primarie previste per l’autunno invertiranno questa tendenza? Eppure, si tratta di uno dei nodi cruciali per il futuro dell’Italia. Il ristagno gerontocratico dell’élite politica del Pd si adagia sul ventre molle del mancato rinnovamento dell’intera classe dirigente nazionale: un universo di micro-élites che, pur di durare, sono disposte a tutto. In primis a non scegliere e a non decidere. A sinistra, questo coriaceo immobilismo ha una storia. Fu la generazione dei «nonni» – quella raccolta attorno al gruppo dirigente togliattiano e al suo ultimo e più tenace esponente, Enrico Berlinguer – a insediare, negli anni settanta, la generazione dei «padri» – quella dei D’Alema, dei Veltroni, dei Fassino e dei Bersani, da più di trent’anni al centro dell’agone. E i «figli»? Perché non riescono a uccidere i «padri»?Cosa li blocca? Perché i tanti quarantenni che ricoprono ruoli importanti nel Partito democratico non riescono, come accade ovunque, a diventare padroni del loro tempo? La penna caustica di un giovane quadro del partito prende l’iniziativa e apre dall’interno una discussione senza veli e senza sotterfugi. Coraggio o incoscienza?

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