«Ciò che la cultura ha fatto con crescente determinazione da un paio di secoli a questa parte è immunizzarci dal presente. Ma non vedo perché debba continuare a farlo indefinitamente. È ora di elaborare il lutto per la perdita dell’unità e dell’eternità del sapere. È ora infine di smettere di usare la scienza per definire, per analogia o differenza, la cultura».
La cultura è il prodotto di una precisa contingenza storica: la presa di coscienza della modernità. Al trauma provocato dall’apparizione di un tempo illimitato e perennemente in progressione, dunque destinato prima o poi a dimenticarsi di noi e di tutto ciò che per noi è importante, si reagì feticizzando la storia, l’origine, fondando su di esse l’identità – ciò che resta identico. Soprattutto, si reagì attivando un discorso sul passato, in cui interpretazione e commento fossero, programmaticamente, più importanti di creazione e innovazione. In questo senso cultura è un concetto abbastanza recente, come del resto la parola che usiamo per esprimerlo: esiste più o meno da un secolo e mezzo. La sua forza gravitazionale è enorme: nulla sfugge alla sua attrazione. Si parla infatti di cultura scientifica, di cultura nazionale, di cultura di massa, di cultura popolare. Ma questa forza è anche la sua condanna. Perché un sistema che include ogni cosa è inevitabilmente chiuso, autoreferenziale, bloccato. Consente solo riciclaggi, rimescolamenti di materiali già a disposizione, investigazioni del già noto. Questo libro intende mostrare che tale visione nostalgica e totalizzante non fa bene alla cultura: invece di renderla onnipotente ne limita l’impatto e ne inibisce le ambizioni. Ne fa uno strumento reazionario, che oggettivamente favorisce i movimenti conservatori, da sempre esperti nell’incanalare le paure del nuovo e della libertà. Ma se a livello ambientale la Terra ha senz’altro bisogno di ecologia, a livello culturale ne ha avuta troppa. È ora di elaborare il lutto per la perdita dell’unità e dell’eternità del sapere. È ora di smettere di usare la scienza per definire, per analogia o differenza, la cultura. È ora di scoprire che il tempo della cultura non è il passato e che avere cultura non significa difendere ciò che siamo e neppure assimilare ciò che non siamo: significa aprirsi all’indeterminazione, alla varietà, al piacere di cambiare – non di essere diversi ma di diventarlo.
Francesco Erspamer
Francesco Erspamer è professore di Letterature romanze a Harvard. Si interessa di storia delle idee e delle trasformazioni culturali, in particolare fra Otto e Novecento e nella contemporaneità. Il suo libro più recente è La creazione del passato. Sulla modernità culturale (Sellerio, 2009). Ha lavorato anche sul Rinascimento, pubblicando una monografia sul duello e l’onore, ed edizioni commentate di Pietro Aretino, Sannazaro, Lorenzino de’ Medici. Tiene una rubrica settimanale di recensioni su Italica, il sito online di Rai International.
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