

Che cosa resta di Antonio Gramsci, morto settant’anni fa dopo aver trascorso l’ultima parte della sua vita nelle carceri di Mussolini? Mentre i suoi «nipotini» si preparano a celebrare l’anniversario della sua morte cercando in tutti i modi di attualizzarlo e di banalizzarlo, o per ri-fondare il comunismo o per fondare ex novo una cultura democratica e riformista, questo libro si propone di leggere Gramsci come un classico che, come tutti i classici, parla alle generazioni future in termini sempre nuovi e imprevedibili. Tramontato il sogno del comunismo, oggi Gramsci è per noi soprattutto uno scrittore, uno dei più grandi scrittori del Novecento. Fare di lui uno scrittore non significa però rimuovere la sostanza politica del suo pensiero, ma prenderla come materia bruciante sulla quale Gramsci ha elaborato un progetto teorico che, come avrebbe detto Pirandello, «non conclude». Il fascino straordinario della prosa gramsciana scaturisce dall’incompiutezza che è legata all’esperienza del carcere. E il carcere, a sua volta, è non un accidente ma la manifestazione di un «destino» che si è annunciato nella sua vita fin dagli anni infantili: del destino della solitudine che si riassume nelle figure di Prometeo, di Farinata, di Tiresia e di altri eroi tragici. Non c’è bisogno di stravolgere il testo gramsciano per ritrovarne le tracce: basta leggere quelle pagine, perché Gramsci il suo destino lo ha raccontato con stile altissimo, sia nei Quaderni che, soprattutto, nelle Lettere dal carcere, libro che sempre più appare come uno dei grandi classici del secolo scorso.
Bartolo Anglani
Bartolo Anglani è docente di Letterature comparate all’Università di Bari, dopo aver a lungo insegnato in Francia e negli Stati Uniti. Studioso di Gramsci, al quale ha dedicato lunghi anni di ricerca, ha pubblicato anche numerosi saggi sulla letteratura del Settecento europeo: da Goldoni ad Alfieri, da Rousseau a Parini, da Baretti a Ortes.

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