«La politica inizia con il racconto della politica… Il gusto per il racconto è tutto e la gente premia chi sa raccontare. È questo il destino della politica».
Che il politico sia cinico e che sia cinica la politica è probabilmente un’ovvietà. La scoperta dell’acqua calda, si potrebbe dire. Cinica la postmodernità, ciniche la globalizzazione e la crisi finanziaria, cinici i detrattori della contemporaneità, cinici i suoi pochi difensori. La politica diventa, così, cinica per definizione, nella diffusa percezione di sé che trasmette tra balbuzie e impotenza. Il guaio, per l’arte politica, è che davvero, a partire dalla modernità, essa è divenuta cinica, ma almeno quanto il cinismo, a partire dalla sua greca accezione originaria, è divenuto politico. Più che di politica cinica è di nuovo cinismo politico che si dovrebbe parlare: di una pratica dell’arte politica che ha impresso un’accelerazione vertiginosa al miglioramento delle condizioni oggettive di vita degli uomini, rendendo lo sguardo cinico sul mondo il soggetto protagonista di questo prodigioso progresso. Politico come cinico è colui che, facendo la politica, tiene fissa una tenace idea di giustizia e s’industria a creare unità di amicizia intorno a essa. Da qui il riscatto positivo del protagonismo cinico e, dunque, della sua sostantività e della sua soggettività, contro la banale oggettività in cui vorrebbero confinarlo gli araldi della verità. Chiunque faccia la politica e sappia vedersi mentre la fa, e chiunque assista da vicino chi in essa impegna la sua esistenza, scoverà in questo libro il potenziale salvifico del cinismo politico. Quello occidentale è dunque un destino cinico: l’autore si riterrà soddisfatto se, giunto all’ultima pagina, il lettore considererà questa conclusione una benedizione e non una minaccia.
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